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Perchè sono diventato un Annis Del Mar

Lo premetto, mentre scrivo scorre in cuffia la ballata country The Wings della colonna sonora del Film. Sì perché può capitare in una sera d’estate nemmeno troppo calda, che su un canale satellitare emergente (e promettente almeno nelle scelte) compaia “I Segreti di Brokeback Mountain”, con la sua carica omo-country inevitabilmente malinconica e i suoi paesaggi del Wyoming spettacolari, quanto amari (che pure non esistono nella realtà)!

E sebbene il film fosse giunto pigramente all’ultima mezzora e la parte omeorotica sottesa, strisciante ma timidamente espressa da AngLee si fosse consumata già nella prima parte, l’ultima parte, quella veramente triste, è riuscita ancora a colpire nel segno, riportandomi all’ovile della memoria, come una delle pecore di Annis Del Mar.

jakiSaranno state le musiche, saranno stati gli occhi blu di Jake Gyllenhaal, o le larghe spalle del compianto e defunto Ledger a lasciarmi un’ “impronta dura nel cuore”, come quella di uno stivale del Cowboy Jack Twist, eppure, mentre Annis Del Mar rimpiangeva il compagno/amico amato, amore ma mai vissuto per codardia,ottusità e misantropia, ho ripensato a quanto i tempi cambiano e a quanto, ancora più incredibilmente, mi sia trasformato in un piccolo Annis Del Mar, io che ero un Jack Twist senza rimorso.

annis1Era il 2006 quando Brokeback uscì nelle sale. Avevo già letto il libro della Annie Proulx (decisamente più commovente nella sua brevità) , era il mio primo vero anno di singletudine, ed ero rampante e speranzoso. Come il Jack Twist del film credevo che l’Amore fosse coraggioso, che le speranze di costruire qualcosa di alternativo fossero possibili, che “valeva la pena” come si sottolinea nel film, vivere qualcosa di unico e abbattere i muri delle persone. Per questo la figura di Annis del Mar risultava per me triste e lontanissima. E quando aveva perso tutto, nel suo amaro pianto solitario con la camicia stretta dell’amico, intrisa di sangue sulle maniche, ero solito pensare che un po’ se lo era meritato.

Che quelli lì, quelli senza coraggio, se lo meritano di stare da soli a piangere per quanto si sono lasciati sfuggire, per la loro pigrizia emotiva e la loro difficile propensione a vivere secondo il loro cuore .

annis2Non tanto poi per la codardia (come non giustificare la paura di dirsi omosessuale negli anni ’60), quanto per quella misantropia ostinata, quella scelta di restare chiusi solo dentro se stessi, incapaci di aprirsi con chiunque. E ne conosco tanti di Annis del Mar. Alcuni li frequento ancora, altri sono lontani ormai da me.

Eppure ora, dopo dieci anni, sento di essere più vicino di quanto mi aspettassi a quella figura, ad Annis del Mar. Non fraintendiamo. La mia vita sentimentale a differenza della sua è appagata e felice. Non ho scelto di non amare, anzi. Ho vissuto tutto senza vergognarmi di nulla.

Ma sono diventato un Annis Del Mar più in generale con i miei affetti. Annis del Mar non amava esternare le sue emozioni né viverle pienamente. Preferiva allontanarsi da tutto e vivere le proprie assenze da solo. Indurirsi come la pietra delle montagne, anche a costo di rimpiangere le scelte fatte. Non c’è un vero perché, lo si può dare ai contesti di vita, o all’evoluzione naturale della vita e degli affetti.

Eppure ora sono divenuto anche io un po’così. Ho scelto di chiudere i conti con tante persone. Ho fatto dei passi avanti amari. Non mi sono voltato indietro verso quei paesaggi ameni che ritraevano me stesso felice e coinvolgente. E spesso sento di non voler vedere nessuno del mio passato, di restare solo in una baita, o in una roulotte con me stesso e basta. La misantropia.

annis3Ma poi, quando uno si lascia andare ai ricordi, complice una canzone triste, capita come ad Annis, di stringere una camicia di ricordi. Ma non quelli di quelle persone lasciate indietro, quanto del mio me stesso del 2006, quello più spontaneo e coraggioso, quello meno misantropo e arrabbiato. Quello che perdonava e tornava a Brokeback nell’inverno, con la scusa delle pecore, per tentare un avvicinamento ancora, anche con chi, amico o conoscente, non se lo meritava proprio .

Quel me stesso, quello, quel Twist è un uomo da cui non potrò ritornare indietro mai più. Un uomo che mi manca, su fotografie appese nella mia memoria, fra uno strimpello di chitarra ed un motivetto country che ascolto ancora ora, con una grande amarezza di sottofondo ed una sottesa codardia che si mescola nella misantropia di un whisky immaginario, bevuto da solo .

Il grande e potente Oz

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Fiabesco e sognante, “Il Grande e potente Oz” prodotto Disney in sala dal 7 marzo, è firmato da San Raimi, già regista di Spiderman, e trascina i suoi spettatori in un universo immaginario pieno di colori e bontà.

Il film è basato sul famosissimo libro di L. Frank Baum, “Il meraviglioso mago di Oz”, già oggetto di diverse trasposizioni cinematografiche, su tutte “Il mago di Oz” di Victor Flaming del 1939 di cui costituisce un prequel, basato sulla vita del ciarlatano Oz, prestigiatore e imbroglione, oltre che sciupafemmine del Kansas. Trasportato in un mondo immaginario grazie ad una mongolfiera, il mago cercherà di opporsi alle due sorelle streghe dell’est e dell’ovest, Theodora e Evanora, che vogliono mettere mano alla Città di Smeraldo prendendo il potere.

Il film è un trionfo di grafica ed effetti speciali realizzati John Frazier, che aveva già firmato con Raimi Spiderman 2, e ci offre paesaggi incantati e luminosi, e riprese da lontano dei personaggi in movimento che si avvicinano a ritratti fiabeschi, forse tentando un avvicinamento con la veste grafica dei libri di Baum.

Quello che ci viene restituito è quindi un affresco fiabesco che ricalca i colori luminosi e puliti di Alice in Wonderland, non rinuncia a figure spaventose ma non inquietanti,e sfrutta una musica leggera e costante che sottolinea i momenti più concitati delle guerre in cui viene coinvolto il mago e la strega Glinda sua alleata. Buona l’interpretazione di James Franco, che ci restituisce una figura di imbroglione che non perde mai lo smalto che lo caratterizza, convincente e angelica Michelle Williams, che abbandonati i panni della diva Marilyn incarna un ruolo di scarsa determinazione ma dai grandi sorrisi, non per questo ingenua.

Il grande e potente Oz.

Marilyn: ritratto allegro di una diva triste

Marilyn, il film visto stasera, e interpretato da una bravissima Michelle Williams, racconta di una donna sola.
Una diva, Marilyn Monroe celebrata da tutti, idolatrata per il suo affermato “talento naturale”, che tutti vogliono sfruttare, chi per fare sesso, chi per fare soldi, chi per fare un film. Una diva che tutti amano o odiano con uguale intensità, ma nessuno sa capire.

Il film narra della piccola parentesi inglese, concessasi dall’attrice nel 1957, per girare “Il principe e la ballerina”, una commediola diretta e interpretata da Laurence Oliver, grande attore britannico di scuola shakespeariana.
Sul set la diva si innamora del giovane assistente di regia Colin  Clark che dall’esperienza trasse due diari, che hanno ispirato il film.

Al di là della splendida interpretazione della Williams, mai eccessiva, e civettuola quanto basta per far rieccheggiare lo spudorato e apparentemente innocente infantilismo che la Diva Bambina sfoggiava un po’ per natura, un po’ per  piacere, “Marilyn” ci regala una riflessione sulle persone della nostra vita che interpretano un ruolo. E sono tante, davvero tante.

A volte non si smette mai di recitare, lo sapeva bene Marilyn, e lo sappiamo tutti noi. Entrare nella testa e nella vita di un personaggio è spiazzante tanto quanto comodo. Ma il destino di chi si finge diverso da qual che è, arriva, prima o poi e ci trascina in un baratro di inquietudine, la stessa che ci fa indicare come inadeguati, che ci induce a trovare negli altri dei presunti nemici/competitori, e ci spinge a riconoscere che mai nessuno che “sta dalla nostra parte”.

La lezione di Mariilyn è che non si può essere perfetti sempre. Nè si può pretendere la perfezione e il perfetto dimenticarsi di se, per aspirare ad essere qualcun altro.  Perché quando si arriva alla perfezione tanto desiderata, alla recita perfetta, ecco che lì si nasconde il dolore più profondo, il bisogno di vivere con una maschera per evitare di guardarsi dentro. Marilyn afferma di essere felice, perchè crede che il suo ruolo basti a consolarla, ma non sa quanto la sua maschera la sta distruggendo.

Così spesso mi trovo a pensare che c’è un po’ di Marilyn in molte persone al nostro fianco, in me compreso: qualcuno nasconde i propri dolori dietro battute patinate, altri si sforzano di apparire perfetti quando non lo sono, altri si nascondono dietro un ruolo comodo che non fa emergere la propria solitudine. C’è chi vorrebbe aver fatto scelte diverse, chi sogna di essere qualcun altro. Non è solo un prob di ruoli, tutti ne interpretiamo uno, solo che la cosa triste è quando ci accorgiamo di interpretarne uno Tragico.

Ci sono tante Marilyn intorno a noi, Marilyn bellissime con un trucco e una voce che è impossibile dimenticare. Così come ci sono tante persone che crediamo delle Marilyn e disprezziamo, perchè così sfavillanti, così in grado di riempire una stanza da sole e di farci scomparire. Perchè questo era il dramma di Marilyn: era talmente tanto bella che anche un grande attore come Laurence Oliver spariva e restava solo lei, Marilyn, splendida ed eppure così terribilmente sola con se stessa.

Trailer Marilyn

MINE VAGANTI: non si può vivere di privazioni

Mine vaganti

-un ozpeteck pirandelliano ci insegna a non privarci della felicità

 
Mine vaganti è l’ottimo film di un Ozpeteck ritrovato: dopo i deliri tristemente drammatici di Saturno contro, e le metafore angosciate sulla pietà di Cuore sacro, finalmente Ozpeteck si riscopre ironico e anticonformista come lo era in quelle Fate ignoranti che consacrò il suo successo. Sì perchè la forza di Ozpeteck è nella pennellata ironica che fa della società italiana, tanto che si tratti di quella piccolo borghese della Finestra borghese, medio alta di Cuore sacro, o basso-popolare come Saturno contro e Le Fate.
Qui, il tessuto è quello piccolo borghese del sud, una Lecce luminosa ma piena di una società gretta e pettegola, quasi un grosso paesone pieno di orecchie alzate sul primo scandalo che potrebbe colpire una famiglia dabbene come quella dei Cantone, per esempio, il cui capo famiglia (un divertente Fantastichini) proprietario del pastificio di famiglia decide di riunire la famiglia ed in particolare il figlio Tommaso (insolito Scamarcio, gay autoreferenziale), studente a roma per convincerlo a rientrare in azienda.

Tommaso invece vuole approfittare dell’occasione per rivelare la sua omosessualità e cosi tornarsene  a roma, pur con la disapprovazione della famiglia.
Il fratello antonio lo precederà nell’annuncio della propria omosessualità scatenando l’ira di tutti i componenti, e costringendo tommaso a tacere per non dispiacere ulteriormente il padre, infuriato con l’altro figlio, reo (o malato, nella loro comune visione) di omosessualità.

Nel film, al di là del consueto tema dell’incomprensione della figura del gay nel tessuto piccolo familiare e sociale, ci si spinge verso una più profonda riflessione sulle Mine vaganti, quelle persone che nella loro vita si rendono protagoniste di se stesse e decidono di cambiare le carte in tavola della loro vita, rivelando le proprie inclinazioni, i propri desideri, imponendo le proprie scelte anche se invise ad altri.
è quello che non è riuscito a fare la matriarca dei Cantona,  che da giovane non aveva amato il proprio marito bensì il cognato, e ora a distanza di tempo, sostiene i nipoti nel difficile processo di condivisione dei loro desideri sessuali, differenti da quelli della morale comune.
Il percorso di Tommaso è quello su cui si concentra Ozpeteck, che oscilla addirittura verso un cambiamento del personaggio in versione bisex, per poi rinsavire e concentrarsi sull’aspetto più importante: il coraggio delle scelte al di là dei legacci e legacciuoli che la società ci impone di vivere. Non si tratta nemmeno solo di omosessualità ma proprio di scelte di vita, scelte sbagliate di cui tutti i personaggi della famiglia si rendono conto: la nonna col suo sacrificio finale, si toglie lo sfizio di mangiare dolci a dispetto del diabete, quasi rifacendosi della vita di privazioni dell’amore che ha dovuto sopportare, e dà uno schiaffo morale a tutti i componenti della famiglia chiusi nelle grette convinzioni e paure che credono di leggere negli sguardi degli estranei e nei loro stessi giudizi.

Si ride molto, nelle Mine, una risata ironica e Pirandelliana come la penserebbe l’italiano più moderno nell’assistere alle troppe fisime e cadute d’ignoranza di una famiglia del sud interessata a salvaguardare la facciata di rispettabilità piuttosto che a comprendere l’omosessualità di entrambi i figli. Si ride ed un pò si piange, pensando che in fondo ognuno di noi ha una Mina vagante dentro di se, un indomito sentimento di scalzarsi da quel ruolo prefissato che la società ci impone e non ci va più, ci va troppo stretto.

Così nell’afflato finale, tradizionale per Ozpeteck, il passato della nonna infelice (visto a scorci nel film) ed il presente dei nipoti coraggiosamente Mine vaganti senza saperlo, si incontrano, in un irreale matrimonio che è tutto nella mentre di Tommaso, inerte davanti alle sue stesse pretese di miglioramento, pronto a fare il grande passo e a fare coming out per vivere quella felicità senza privazioni, quell’essere autentico e senza una forma prefissata, che anche il buon Pirandello, ad inizio novecento professava inascoltato.    

   

La prima cosa bella…è il film di Virzì

La prima cosa bella
-Virzì firma una commedia dolceamara sull’amor filiale-

La prima cosa bella è il nuovo film di Virzì ed un verso di una famosa canzone di Nicola di Bari, che coi suoi pezzi scanzonati ed un tantino tamarri, firma l’insolita colonna sonora di questa commedia all’italiana impregnata di significato e di ironia.

Alternando il passato a presente, si racconta di questa famiglia toscana divisa dalle voglie di una giovane madre, di  fare l’attrice: frenata dal marito, rapisce i due figlioletti e cerca il modo di sfondare senza riuscirci.
I figli seguono la madre, una bravissima Ramazzotti, e passano da una sistemazione di fortuna all’altra. Tornati alla casa del padre, che nel frattempo si è avvicinato alla inflessibile e rigida sorella della moglie, continuano a desiderare la madre che per un pò si allontana per poi riavvicnarli gradualmente.
Quando il padre morirà la famiglia, nel frattempo cresciuta si riunirà. Nel presente, invece, si vive il dramma personale della madre una splendida Sandrelli in piena forma, orami in età avanzata, e vicina alla morte a causa di un cancro che però la debilita lentamente, lasciandole la possibilità di recuperare il rapporto coi figli, ormai grandi.
Il maggiore, interpretato da Mastrandrea, è un professore piuttosto depresso che racchiude in sè tutte le insicurezze dell’epoca moderna, emblema degli adulti pigri e incapaci di impegnarsi, anche in un rapporto.
L’altra figlia, pur sposata con figli è profondamente infelice e insicura e vive una specie di sottesa e nervosa attrazione con il suo capo, alle spalle del petulante marito.

Il film, che si chiude con l’inevitabile epilogo della morte della Madre, eppure è un crescendo gioioso e di sentimenti.
Non si arriva mai alle lacrime, perchè nel momento in cui il patetismo potrebbe prendere il sopravvento, Virzì prontamente antepone le stramberie dei suoi personaggi, nervosi, come le mani che stringono le loro sigarette mai finite, sintomo di una incredibile incapacità di vivere una vita coraggiosa, senza sentirsi schiacciati dalla figura della madre.
Quest’ultima infatti, con la sua provocante sensualità, già da giovane aveva oscurato le personalità dei figli.
Eppure su tutto, nonostante il caotico passato, su tutti questi personaggi pesano i legami familiari come macigni.
L’affetto filiale è immutato, e vale tanto per la figura della mdre, pur nella sua prepotente sensualità ed egocentrismo, che del padre, nella sua fredda condivisione dei problemi del figlio maggiore.
Così come i rapporti filiali legano i componenti in età adulta, fino alla morte dell’amata odiata madre, che tenta di "svegliare i suoi figli".

La morale
Il film insegna che c’è sempre tempo per cambiare. Insegna che l’amore filiale aiuta e protegge, ma anche da adulti può servire a comprendere la vera natura di se stessi, che resta immutata, seppur  si cresce e si affontano sfide sempre nuove.
I due figli adulti non sono altro che le proiezioni delle loro insicurezze di bambini. La madre insegna loro che c’è sempre un domani che si affronta con una canzone gioiosa, anche se ti trovi a vivere in una catapecchia di fortuna e non sai cosa ne sarà di te domani.
"La prima cosa bella è il tuo sorriso" ammette scanzonato Nicola di Bari, facendo intendere che l’eredità ultima di una madre provocante non è lo schiacciamento delle personalità dei figli, ma lo sprone a vivere i giorni come se fossero gli ultimi, realizzando i propri sogni, anche se difficili, anche quando si è spaventati e ci si sente terrribilmente soli.

LO SPAZIO BIANCO: una buy in gran forma

Lo spazio bianco: il senso di un’attesa
quelle Fasi della vita, sospese

Lo spazio bianco di Cristina Comencini, è un film difficile, soprattutto per un uomo. A prima vista improponibile anche per una donna che è in dolce attesa, e decisamente frustrante per una donna che di figli ne ha già avuti.
Questo perchè tocca un tema delicato, quello della nascita di un figlio prematuro e dell’attesa del "risveglio alla vita" del piccolo, sospeso fra vita e morte, attaccato ad un respiratore artificiale.
E’lo spazio bianco, il periodo di attesa della svolta: la nascita o la morte, il dolore o la gioia tanto attesa.
Ma nella storia di Maria, ben interpretata da una decisa Margherita Buy, c’è altro, c’è la vita di una donna ormai non più giovanissima, alle prese con una vita difficile a Napoli, un lavoro precario, fà l’insegnante in diverse scuole per adulti, e una vita sentimentale piatta e inappagata. Da troppo tempo coraggiosamete single, Maria si sente lontana e inadeguata nel ruolo di futura madre ed eppure così serenamente sola dal renderla quasi rassegnata ad una esistenza fatta di lavoro e sigarette.

Ed eppure la svolta appare inaspettata, in un uomo conosciuto per caso, che la mette in cinta e l’abbandona. La nascita di una bambina prematura, fa sprofondare Maria nell’ansia dell’attesa ferma ed immobile, come l’aria asettica della sala d’ospedale ove si reca ogni giorno per trovare la piccola  e per dividere uno straccio di umanità con le altre donne presenti, tutte napoletane veraci e tristemente realistiche.
Pur essendo sola e disperata, nella più completa inconsapevolezza su quale sarà il destino della piccola, il personaggio trova in se stesso la forza di risolvere tutto: di portare la propria classe all’esame finale, di rimettere in sesto la sua vita, sprofondata in una blanda povertà e di recuperare gli affetti, dall’amicizia coi colleghi di lavoro ad un nuovo amore, in un giovane medico che vuole curare i prematuri con la musicoterapia.

Non si tratta dunque di un film triste e rassegnato, bensì proprositivo e costruttivo che scagliona con logica impietosità lo stato umano di una donna in attesa dell’ignoto, in attesa di una risposta sulla vita di un neonato, di una parte di se che potrebbe vivere o morire, trasicnando con sè parte del proprio futuro.

Per chi come me non potrà vivere, nè sentire mai quelle emozioni così particolarmente angoscianti la riflesione è un’altra e forse minore:
quanto siamo in gradi di cogliere quei periodi della nostra vita, quelle fasi, quegli "spazi bianchi" della nostra esistenza nei quali "aspettiamo" qualcosa che in fondo ci riguarda ma dipende da altri?
E come viviamo quegli attimi?
lasciandoci travolgere impotenti dagli eventi o decidendo di andare avanti comunque, di affrontare tutto con coraggio? anche l’inevitabile?
E così, pur non essendomi commosso come le mie colleghe Anna e Ema, ho provato orgoglio per la protagonista, che in una toccante scena afferma risoluta al telefono ad un collega "io ce la farò, io Posso Farcela", come a sottolineare che l’attesa, lo spazio bianco, non è che un momento, come tanti altri della nostra vita, nella quale siamo messi alla prova di nuovo, nella quale dobbiamo dimostrare a noi stessi che possiamo farcela, possiamo tornare a scrivere la nostra vita oltre lo spazio bianco di un momento.

Il futuro è oltre quello "spazio bianco" che ci troviamo a percorrere e se da questa fase di stasi e di attesa deriva una vita o una morte, una gioia o un dolore, dobbiamo comunque trovare quella forza che ci permette di rialzarci ancora e trovare qualcosa di altrettanto valido per cui combattere, ovvero noi stessi.    

MAMMA MIA, è tutto così greco

Mamma mia! che nostalgia degli anni 70
è tutto così anni70…
 
MammaMia è un film strepitoso.
Non c’è una frase per descriverlo.
Io lo ammetto, non sono mai stato un grande amante dei musical, mi piacque Chicago , non capii molto mouline Rouge, ma questo Mamma Mia, interamente basato sulle atmosfere degli Abba mescolate con un contesto rurale-isolano greco costituisce un mix da bomba.
 
La storia è semplice e fresca: una giovane ragazza, che stà per sposarsi, decide di ritrovare il padre e spedisce una lettera ai tre amori di gioventù della madre. Quest’ultima, una fantastica e sempre sopra le righe Meryl Streep non conosce con esattezza l’identità del padre. Così quando i tre possibili padri si presentano sull’isola entra in confusione. Fortunatamente l’aiuto delle due amiche del cuore, con le quali la Streep  costituiva un trio negli anni 70, permetteranno a tutta la faccenda di risolversi in un mare di risate e piccoli doppi sensi.
 
Il film è un inno alla gioia. Come in tutti i musical la componente musicale è preponderante sulla storia e non c’è occasione in cui la musica martellante ed incisiva degli Abba non sia inappropriata.
Corretta la descrizione dei personaggi principali, il rapporto di affetto fra madre e figlia e l’ansia dell’abbandono, condita con un pizzico di Houmor. Sacrificato qualche personaggio secondario, appiattito dalla presenza scenica di Streep e Brosman (coraggioso nel canto e visibilmente ingrassato)
.
Il film sfugge abilmente la trappola del localismo greco, come non riusciva (apposta) il Mio Grosso Grasso Matrimonio Greco e si concentra sulle emozioni universali, l’Amicizia (fra le 3 donne e fra le 3 amiche della piccola sposa) , l’Amore (fra i due giovani protagonisti) e soprattutto tanta Nostalgia degli anni 70.
 
Si perchè in più di un punto si nota questa vena nostalgica, che non è tanto e solo per le pailettes ed i lustrini, di cui il film fa un uso fin troppo divertito, (a volte fin troppo divertito), quanto più in generale per lo scorrere inesorabile del tempo, che colpisce , in questo decennio, proprio i rappresentanti dei ’70, prossimi ai 40 e quella degli anni 50, che nei 70 avevano 20 anni, come la piccola sposa del film.
La generazione cresciuta, quella degli anni 50 è ben rappresentata dalla Streep come una generazione che non si sente ancora morta, che non ha paura di ricordarsi (come dimostra l’esibizione delle tre storiche componenti del trio), una generazione che passa per il solitarismo anni 80 e per l’ossessione per l’immagine (come testimoniano le due amiche storiche della Streep).
E’ la generazione nuova quindi ad essere messa alla porta. In una sorta di consegna del testimone temporale Mamma Mia dice alla generazione del 2000, alle prese con una depressione non dissimile a quella degli anni 70, che si può avere coraggio di andare avanti di ridere, di non aver paura di abbandonarsi.
Sono gli Abba a rinfocolare con le loro liriche ottimistiche, questo comune senso di speranza nella crisi, economica o d’età che dir si voglia.
 
"Mamma Mia, torno ancora qui! non posso rsistere" è un inno anni 70, un ritorno inevitabile a ciò che è stato, anche solo per lo spazio di un ora e mezzo di film e per tutti coloro che pur non avendo vissuto in quel periodo, ne apprezzano l’ottimismo ed il positivismo ironico.   

FUNNY GAMES: il gioco del sadismo

Funny games: chi è il sadico?
-Miheal Pitt, angelo del sadismo pone un emblematico quesito–
!!!!!!! è spoiler

Funny games è un film difficile, uno di quei film che, pur non essendo splatter, tendono ad esserlo a livello psicologico, facendoti traballare sulla sedia, dimostrandoti che un ricatto psicologico può metterti in crisi più di una scena di sangue.
Basato su un remake di un film del 1997, il film può apparire a prima vista intollerabile, di una violenza che si ispira al modello visionario di Arancia Mccanica.
Molti infatti i riferimenti al grande Kubric: da i due torturatori vestiti di bianco e biondissimi, quasi due angeli del sadismo, fino al riferimento dalla prima scena alla musica classica soppiantata dal rock inascoltabile.

In questo film, la trama è breve e terribile: due giovani dall’aria impeccabile, biondissimi vestiti di bianco, dalla testa ai piedi, terrorizzano le famigliole di una località vicino ad un lago. Con la scusa di chiedere delle uova, si introducono a casa, e uccidono i componenti delle allegre famigiole.Senza scrupoli, senza remore, immotivatamente.

Ed ‘è proprio l’assenza di motivi  e di pietà e di umanità che sconvolge nei due giovani, all’apparenza angelici ed invece terribili quanto affettati, piene di buone maniere, che rasentano l’educazione mormona e pretenziosa del rispetto a tutti i costi, anche se sei uno sporco assassino.

La famigiola presa in ostaggio, padre, madre (una bravissima Naomi Wats)

e figlioletto, restano praticamente inermi, sconvolti dalla violenza ed incapaci di qualunque resistenza, tanto l’abbattimento psicologico, perpetrato dai due pazzi.
 
Ma il senso del film non è mostrarti l’orrore innescato da due mitomani, il messaggio è lanciato direttamente allo spettatore sconvolto tanto quanto la famiglia, cui l’angelo biondo Micheal Pitt (già ragazzo di jen in Dawson’s creek) abbattendo la "quarta parete" cinematografica chiede la conferma che si sia dalla parte della famigiola.
Perchè lo fa?
Perchè vuole veramente chiederti: sei sadico come me che vuoi vedere come finiranno? o sei meno sadico di me e adesso prendi e te ne vai? Dunque
Quanto sei sadico? quanto sei pronto a vedere?

Non c’è una riisposta facile: ammetto di essermi stupito di essere rimasto cosi a lungo: a metà del film volevo andarmene e ho scoperto poi che il tentativo del regista era proprio questo: darti la peggiore specie di sadismo per vedere quanto saresti rimasto.

E Non si tratta di sangue: nessuna scena di sangue nessun lago di budella o dita strappate: è la tensione psicologica che domina, l’impossibilità di superare un travaglio dell’anima quando vedi i tuoi cari nelle mani di pazzi senza scrupoli perhè senza reali motivazioni, neanche monetarie… e non puoi opporti in nessun modo perchè ciò che ti tiene fermo non è un uomo più forte (i due angeli sono gracilini) quanto un uomo che sa
come fare a pezzi la tua psiche.

Così, benchè psicologicamente a pezzi uscito dal cinema, non si può negare che il film abbia messo in luce una grande capacità: quella di tenere lo spettatore sulla sedia, di coinvolgerlo in quel sadismo.  

Ed ecco la critica è proprio al cinema USA malato dispettacolarismo e splatter, ed allo spettatore disposto a vedere un Hostel o un Saw, come una guerra in iraq fino all’ultimo momento, e quindi anche un Funny Games, che almeno ha la presunzione di farti capire che sì:

i sadici sullo schermo non sono due, il terzo sei tu, che resti a guardare. 

E VENNE IL GIORNO…del film angosciante!

E venne il giorno….delle piante assassine!
quando il mondo vegetale si incazza

Ci vuole coraggio per andare a vedere "E venne il giorno", thriller angosciante del regista di Signs e del Sesto senso, e non perchè il film sia in qualche modo disgustoso o mal fatto (salvo un innegabile microfono che volteggiava sulla testa degli autori), quanto per il messaggio di fondo che vuole ispirare all’attento spettatore non ambientalista.
Si, perchè in un mondo dominato dalla paura e dal terrorismo, il genere umano, secondo il regista, non si accorge delle cose più piccole, più innocue, quelle più rassicuranti, che possono veramente logorare il genere umano, essere il vero nemico.

Nel film il "nemico" non è il terrorista invisibile- più o meno riconoscibile, qui il nemico è il mondo vegetale, visibilissimo ed inerme, all’apparenza. E’ lui che scatena una tossina che ferma le menti delle persone inibendo la loro capacità di conservazione, spingendole verso atti inconsulti SOLO contro se stessi (non contro altri, si badi bene).

Importante sottolineare che non c’è un uomo killer in questo film:
neanche i contagiati dalla tossina uccidono altri,
come invece nell’Alba dei morti viventi
o la tredicesima ora:
 qui è la Natura il terribile nemico.


E la cosa ancora più sorprendente è che lo spettatore lo capisce al volo, dalla prima scena, mentre i protagonisti ci arrivano solo dopo aver escluso la minaccia terroristica per metà film. Ma anche esclusi i terroristi si pensa dapprima all’acqua e all’aria e non alle piante.
davvero nessuno ci arriverebbe?? voi ci sareste arrivati?

Loro lì ferme, mute e silenziose sono assassini implacabili, uccidono senza distinzioni MA NON SENZA MOTIVO.
sONO INFATTI ISPIRATE DALLA SOPPORTAZIONE ESTREMA DEL GENERE UMANO, ne rifiutano la presenza e ne sperano la disfatta.

nel film nn c’è neanche un eroe…
perchè mai?
come si fa a combattere le piante?

ED è QUI CHE il film diviene terribile:

proprio l’immobilità delle piante la loro impotenza è  tutta una facciata: LORO COMUNICANO, USANO IL VENTO PER SPARGERE LA TOSSINA, nulla le può fermare, sono più veloci perchè sono più veloci del vento, DA LORO NON HAI SCAMPO.

Un pò come negli uccelli di Hitckoc,
dove si diceva a chiare lettere
che se gli uccelli veramente si incazzassero
il mondo non avrebbe scampo
,


 anche qua, l’idea è atroce: LE PIANTE SONO OVUNQUE ED OVUNQUE ARRIVERANNO A TE.
Quanto al tenore del film, molto azzeccato credo sottolineare l’unione di una coppia davanti alla minaccia: non essendoci un cattivo, neanche ci poteva essere un eroe:

il protagonista
è un uomo comune
che usa il ragionamento scientifico per capire come difendersi,
non come vincere.


Nel mezzo alcune scene macabre da botteghino e la bella e terribile immagine di Central Park pieno di persone immobili che ad un tratto camminano all’indietro o si tolgono la vita nel modo più strano,


molto alla stephen king,
poi l’immagine delle cittadine rurali dell’america del nord est,
 piene di cadaveri penzolanti dagli alberi
,

 
pur non osando lo scenario apocalittico alla indipendence day, o alla Jerico, il film è modestamente ben fatto, a volte ingenuo nei dialoghi ed inferiore nella sceneggiatura a quella del sesto senso o a  Kolossal come Indipendence day.

L’impressione finale è dunque un certo timore reverenziale, al momento del ritorno a casa: non potevo guardare una pianta senza pensare a quanto ci sopportano, loro che sono, come dice Antonio, EVOLUTE al punto di SAPER SUPERARE UN TUMORE INGLOBANDOLO E STRANGOLANDOLO.


Loro le piante,
mute ed inermi
ed eppure possono rivelarsi
i terroristi più pefetti:
MUTI, SILENZIOSI, CAMUFFABILI E SPIETATI


Rispettiamo l’ambiente quindi e non per noi stessi, ma per Loro,
PERCHè SE SI INCAZZANO…….

INTO THE WILD: che amarezza!

Into the wild
-IL SENSO (amaro) DEL VIAGGIO nelle terre selvagge della vita
 
Into the wild, regia di Sean penn, è uno di quei film che puoi apprezzare o detestare, solo in base al momento nel quale lo vedi.
 
Tratta del viaggio di un giovane studente che decide di abbandonare la famiglia (in crisi), gli amici e gli studi, per FARE UN PERCORSO, per allontanarsi da un mondo fatto di COSE (parole sue) di cui non ha bisogno.
Per niente sofferente, la sua avventura è basato su un assunto imprescindibile, raggiungere l’Alaska.
Per farlo, si incammina SOLO, si fa credere morto, cambia nome nell’immaginarissimo ALEXANDER SUPERTRAMP, ed incomincia una NUOVA VITA, fino ad un drammatico epilogo. Nel frattempo conosce decine di persone che gli si affezionano moltissimo (mentre lui molto meno), fa mille lavori, ma non riesce a legarsi nemmeno con coloro che fanno una vita come la sua.
 
Il film deve moltissimo, e lo ammette nei riferimenti letterari del protagonista, alla tradizione DIARISTICA VIAGGIANTE DI Jack London (il richiamo della foresta) e Jack Kerouac (sulla strada), ma la trama, raccontata in parte dalla sorella del protagonista, che aspetta il suo ritorno, ed in parte dal giovane Supertramp, mentre vive il suo rapporto solitario con la Natura, DIVENTA una reinterprtazione POTENZIALMENTE ODIOSA ED ERRATA DEL VIAGGIO e DEL RAPPORTO CON LA SOCIETà CONTEMPORANEA.
 
sì, perchè se in London e Kerouac il SENSO DEL VIAGGIO era legato, nell’un caso alla scoperta del rapporto con la natura e nell’altro con la scoperta delle proprie possibilità, QUI C’è L’UNO E L’ALTRO ISTINTO, legato ad un inspiegabile CONFUSIONE fra il concetto di SOCIETà e di CONDIVISIONE DI ESPERIENZE.
 
Infatti nella prima parte del film, si percepisce questo tentativo di criticare il Mondo contemporaneo, la SOCIETà contemporanea, responsabile, fin dalle figure GENITORIALI, di una degenerazione consumistica ed affettiva, fino all’ incapacità di RISCOPRIRE I VERI VALORI DELLA VITA, legati al rapporto con la NATURA.
 
Ecco che il viaggio di SUPERTRAMP vorrebbe essere un viaggio di LIBERAZIONE, e insieme di riscoperta della natura e di ritrovamento di se stesso.
Forse troppe cose.
bellissime le immagini naturali, il vivere secondo le regole quasi primitive dei cavernicoli, la rabbia nell’uccisione di animali di cui non si è potuto poi cibarsi.
Ma poi il film cade inesorabilmente sulla buccia di banana del MITO DEL PROGRESSO MALVAGIO.
La società viene messa alla berlina, salvo poi FAR ACCORGERE IL PROTAGONISTA, proprio in punto di morte, sul Bus che lo aveva ospitato come casa in Alaska, di come TUTTO IL VIAGGIO, TUTTE LE ESPERIENZE E LE AVVENTURE, TUTTE QUELLE EMOZIONI RACCHIUSE IN UN DIARIO, SU UNA CINTA, sono nulle e vuote SE NON VENGONO CONDIVISE.
L’autore tenta quindi un recupero, cerca di far capire che LA CONDIVISIONE di esperienze non ha nulla di DEGENERATO, come si intende invece per la SOCIETà: anch’essa è una forma di CONDIVISIONE, ma non ogni forma di CONDIVISIONE è SOCIETà E NON OGNI CONDIVISIONE MERITA CRITICA.
 
Il protagonista muore  fra atroci sofferenze dovute all’ingestione di pianta velenosa, dopo aver patito la fame a causa dell’impossibilità di allontanarsi dalla radura alaskiana,essendo il fiume vicino da guadare troppo in piena.
Ed è allora che il rammarico di Alex si trasforma in rabbia da spreco degli spettatori, in frustrazione da mancato riconoscimento di un principio, quello della fuga per trovare se stessi, che non pare affatto compiuto:
perchè il viaggio serve soprattutto a se stessi per ritrovarsi, QUESTO Sì, SI PARLA QUASI DI UN percorso spirituale, MA SPESSO NON BASTA : occorre dividere con qualcuno ciò che si è diventati, perchè il messaggio insito nel cambiamento sia da guida anche agli altri.
Un libro di memorie forse basta, ma una vita forse vale molto di più… perchè si può continuare a viaggiare ancora, ad amare ancora a cambiare e crescere ancora.
Voto 7- a
iutano le musiche bellissime e la fotografia da oscar