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Marilyn: ritratto allegro di una diva triste

Marilyn, il film visto stasera, e interpretato da una bravissima Michelle Williams, racconta di una donna sola.
Una diva, Marilyn Monroe celebrata da tutti, idolatrata per il suo affermato “talento naturale”, che tutti vogliono sfruttare, chi per fare sesso, chi per fare soldi, chi per fare un film. Una diva che tutti amano o odiano con uguale intensità, ma nessuno sa capire.

Il film narra della piccola parentesi inglese, concessasi dall’attrice nel 1957, per girare “Il principe e la ballerina”, una commediola diretta e interpretata da Laurence Oliver, grande attore britannico di scuola shakespeariana.
Sul set la diva si innamora del giovane assistente di regia Colin  Clark che dall’esperienza trasse due diari, che hanno ispirato il film.

Al di là della splendida interpretazione della Williams, mai eccessiva, e civettuola quanto basta per far rieccheggiare lo spudorato e apparentemente innocente infantilismo che la Diva Bambina sfoggiava un po’ per natura, un po’ per  piacere, “Marilyn” ci regala una riflessione sulle persone della nostra vita che interpretano un ruolo. E sono tante, davvero tante.

A volte non si smette mai di recitare, lo sapeva bene Marilyn, e lo sappiamo tutti noi. Entrare nella testa e nella vita di un personaggio è spiazzante tanto quanto comodo. Ma il destino di chi si finge diverso da qual che è, arriva, prima o poi e ci trascina in un baratro di inquietudine, la stessa che ci fa indicare come inadeguati, che ci induce a trovare negli altri dei presunti nemici/competitori, e ci spinge a riconoscere che mai nessuno che “sta dalla nostra parte”.

La lezione di Mariilyn è che non si può essere perfetti sempre. Nè si può pretendere la perfezione e il perfetto dimenticarsi di se, per aspirare ad essere qualcun altro.  Perché quando si arriva alla perfezione tanto desiderata, alla recita perfetta, ecco che lì si nasconde il dolore più profondo, il bisogno di vivere con una maschera per evitare di guardarsi dentro. Marilyn afferma di essere felice, perchè crede che il suo ruolo basti a consolarla, ma non sa quanto la sua maschera la sta distruggendo.

Così spesso mi trovo a pensare che c’è un po’ di Marilyn in molte persone al nostro fianco, in me compreso: qualcuno nasconde i propri dolori dietro battute patinate, altri si sforzano di apparire perfetti quando non lo sono, altri si nascondono dietro un ruolo comodo che non fa emergere la propria solitudine. C’è chi vorrebbe aver fatto scelte diverse, chi sogna di essere qualcun altro. Non è solo un prob di ruoli, tutti ne interpretiamo uno, solo che la cosa triste è quando ci accorgiamo di interpretarne uno Tragico.

Ci sono tante Marilyn intorno a noi, Marilyn bellissime con un trucco e una voce che è impossibile dimenticare. Così come ci sono tante persone che crediamo delle Marilyn e disprezziamo, perchè così sfavillanti, così in grado di riempire una stanza da sole e di farci scomparire. Perchè questo era il dramma di Marilyn: era talmente tanto bella che anche un grande attore come Laurence Oliver spariva e restava solo lei, Marilyn, splendida ed eppure così terribilmente sola con se stessa.

Trailer Marilyn

Addio Whitney, una diva suo malgrado

Gli anni 80 della Musica ci stanno lasciando: dopo la morte del re del pop ecco che muore la regina del gospel romantico

La morte di Whitney Houston ha scosso il mondo della musica statunitense e mondiale, a breve distanza dall’apertura dei Grammy Awards che l’avevano vista per ben sei volte vincitrice.

Stella dela musica negli anni 80 e 90, Whitney non ha bisogno di presentazioni o troppo ricordi: è ancora impressa nella mente di tutti “I will always love you”, un classico con cui tutti abbiamo un pò pianto, un pò ballato quei terribili lenti del liceo attaccati alla tipa che proprio non ci piaceva o ci piaceva troppo e a cui promettevamo sogni d’amore di lunga durata.

Ma come l’amore anche la musica non è infinita e della difficoltà di viverla Whitney ne aveva fatto un principio piuttosto assodato. Terribilmente sola negli ultimi anni, entrava e usciva dalle cliniche di recupero, spesso si esibiva in condizioni pietose, vittima dell’anoressia e dell’abuso di droghe e stupefacenti, senza contare i traumi fisici di Bobbi Brown, l’amato-odiato marito. Whitney era la metafora perfetta della donna profondamente triste. Con lei muore gran parte del sogno romantico targato anni 80 che in forza di quella voce alta e decisa, l’aveva resa giustamente Diva immortale.

Da ragazzo degli anni 80 profondamente innamorato di lei e della sua musica e di quello che significavano le parole che hanno accompagnato i miei primi momenti romantici, credo che con lei sia morto il romanticismo melodico in cui la musica ha allevato la generazione dei trentenni di oggi, un romanticismo pari solo a quello di Mariah Carey sua acerrima nemica, almeno fino alla colonna sonora  Principe d’Egitto, dove le avvicinò la comune esperienza di un declino inevitabile dopo l’avvento delle nuove stelline Britney e Cristina e della pop-dance music.

Whitney, dicevo, ha riempito la musica di un romanticismo alto, distante da quello vagamente ammiccante di Mariah Carey e lontano da quello plasticoso delle nuove leve Britney e Cristina. Lo spirito gospel e la radice nera della musica della Houston la avvicinavano alla cugina Dionee Warrick e alla madrina Aretha Franklin, con un’attualità ed una profondità che le avevano fatto meritare il titolo di Diva, che la Houston, pur beandosene, ha spesso sentito come un peso troppo grande.

Per tutti quelli degli anni 80 la cantante resterà quella dei baci appassionati, delle note altissime, degli accordi difficili e della sdolcinatezza perfetta. Emblema di un mondo spaventato dalla modernità, la Houston con Body Guard ha ben identificato per se stessa e per quella generazione, la necessità di stare al sicuro, di cercare uno scoglio alla sofferenza, un riferimento capace di proteggerla dalle avversità e dalla modernità dilagante che avrebbe presto conglomerato l’amore fra i tanti sentimenti facilmente condensabili in facili musichette dagli accordi scontati.

La voce della Houston, con le sue profondità e le sue imperfezioni stava lì a ricordarci che l’amore è fragile e profondo, intenso e terribilmente capace di farti portare alle lacrime d’amore e gioia.

Credo che Withney debba essere ricordata per questo, per le sue riflessioni sull’amore, sul proprio destino, per la terribile umanità in cui si identificano anche le tanto decantate Stelle degli anni 80, figure, come quella di Micheal Jackson, terribilmente umanizzate dopo gli anni 90, quasi a significare che le Dive, non ci sono più e per fortuna.

Pace dunque all’anima di una Diva che non voleva essere tale. Una Diva che era tale non per i meriti canori ma per la terribile fragilità che ci ha ricordato di avere.